Un'intervista a ... GUALTIERO REDIVO
La Rassegna d'Arte 2014 di Art Open Space è iniziata con la personale dell'artista Gualtiero Redivo dal titolo LA FORMA DELL'ANIMA; questa che segue è l’intervista integrale raccolta per tale occasione e riportata sul catalogo della mostra.
Chi è Gualtiero Redivo?
Sono nato a Genova nel 1946 e solo dopo qualche anno con la famiglia mi sono trasferito a Roma.
A 17 anni ho iniziato spontaneamente la mia esperienza “artistica”.
Nel 1969 ho partecipato alla prima mostra: una collettiva universitaria al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Ho conseguito la laurea in matematica all’Università degli Studi di Roma "La Sapienza" e ho iniziato subito a lavorare presso un primario Istituto di Credito come informatico e successivamente come analista di automazione e organizzazione.
Nonostante Il lavoro mi abbia impegnato molto ho fatto sempre quadri anche se in modo saltuario e ho seguito con costanza la dinamica del mondo dell’arte.
Nel 1996 ho sentito il bisogno di impegnarmi con maggiore continuità, prendendo parte ad alcuni concorsi, promuovendo le mie opere presso alcune gallerie e ho frequentato alcune accademie allo scopo di confrontarmi con altri artisti. E poi … eccomi qui.
..cosa racconta attraverso le sue opere?
Prima di rispondere alla domanda faccio una breve premessa.
Il valore di un’immagine scaturisce dalla relazione tra l’opera d’arte e l’osservatore che trova in sé, nella sua interiorità, cultura e sistema di attese, il senso di ciò che è a lui davanti, stimolato dagli “artifici” messi in atto dall’artista. Solo al fruitore/destinatario compete la responsabilità interpretativa dell’opera perché la sua esperienza estetica non è né prevedibile, né determinabile completamente da parte dell’artista/artefice. Infatti l’idea che il visibile abbia una dimensione matematica e omogenea, ovvero sia indipendente dal soggetto percettore è stata demolita dalla scoperta delle incongruenze dell’occhio: la visione è un atto irripetibile e colui che osserva “produce” l’immagine che guarda.
Tuttavia, ritengo che accostare alle mie opere non simboliche locuzioni - non impossibili commenti, né sterili titoli - che facciano riferimento a temi specifici e caratteristici del mio “vissuto”, fornisca al fruitore indizi significativi per l’esplorazione di inaspettati percorsi di lettura delle opere stesse.
Per ottimizzare la percezione oriento, quindi, l’immaginazione dell’osservatore a integrare in un’unica esperienza lo stimolo visivo, alimentato dalla struttura, e il processo relazionale contaminato col titolo, caratterizzato dall’avere un forte contenuto etico, sociologico e politico.
In questo modo, rendo coevi l’emozione e la ragione con l’obiettivo di creare valore e far apparire l’artefatto in una nuova prospettiva come il riflesso di un pensiero non gregario, la cui forza evocativa sia in grado di modellare lo statuto dell’oggetto arricchendolo di un quid, non accessorio e ornamentale, e far evaporare quell’incompiutezza che in genere il pubblico riscontra nell’arte contemporanea.
Solo allora l’opera dilata i suoi confini, può dar forma al presente interpretando il clima del tempo e testimoniando le sue molte anime.
Hai iniziato il tuo percorso artistico con il figurativo, ispirandoti dapprima a Modigliani e poi a Francis Bacon; cosa ti ha spinto a passare ad un linguaggio più concettuale?
La disposizione verso la presentazione della materia, piuttosto che la rappresentazione della realtà, deriva senz’altro dalla mia formazione non accademica. Dopo un primo approccio con gli strumenti di base del fare, ho usato la materia come fonte di tensione e di ordine compositivo.
La scelta, l’accostamento e la manipolazione di materiali eterogenei danno corso a nuova vita e aprono la percezione a nuove possibilità.
Quindi indagare la materia mi ha permesso non di ricercare una bellezza ma di scoprire l’anima del nostro tempo. Un’operazione che ho cercato di svolgere con meticolosità per suggerire senza traumi una forma, per passare dal caos del processo all’idea compositiva e riscoprire il dominio della coscienza.
Un fare quadri che va oltre l'esperienza informale senza rinunciare all'espressività e al dramma, pretendendo di poter sostenere lo sguardo collettivo e creare quindi le condizioni necessarie per dedurre senso dalla esplorazione della fisicità della materia.
Pensi che la scelta dell’uso del nodo, quale emblema della tua attuale poetica, possa essere stata in qualche modo originata dalla tua laurea in matematica?
Non credo.
La scelta dell’uso del nodo risiede nel fatto che esso mutua la complessità della vita contemporanea. Il nodo, infatti, per la sua natura incarna efficacemente il concetto di complessità; caratteristica che gli deriva dall’essere contemporaneamente unità e molteplicità. Infatti il nodo, pur nella sua unicità oggettuale, è elemento che riflette per trasposizione i molteplici significati diversi che il vocabolo nodo assume: trama, complicazione, equivoco, vincolo, costrizione, centralità o essenzialità. Il nodo sta al complesso: la nostra vita è la storia della sfida tra la volontà della ragione a cogliere tutto il reale e la resistenza che questo reale oppone alla ragione.
Il nodo fissa idealmente sulla superficie del supporto il vissuto nell’arco temporale che va dalla nascita alla morte, dall’età di quando ci si sente un re, in grado di conquistare il mondo, a quella della maturità abitata più dalle assenze che dalle presenze e caratterizzata dall’ineludibile consuntivo e dal disincanto. Al contempo fissa idealmente e indissolubilmente l’insieme delle relazioni che intercorrono tra il destino individuale e quello di tutti gli altri.
L’opacità riveniente dalla mescolanza di unicità e molteplicità dà spessore all’opera e il dramma dell’esistere smarrisce il suo carattere individuale per riflettere il dramma di tutta la condizione umana.
E poi il nodo è anche un segno che dà riconoscibilità.
Altro segno distintivo delle tue opere è la tridimensionalità. Un’evoluzione stilistica o una necessità di espressione?
Il nodo configura, attraverso la deformazione della materia, una forma che organizza e interpreta il disordine e dà dimensione allo spazio: euclideo e iperbolico.
Si presenta come un attrattore di un sistema dinamico, infatti l’oscillazione percettiva si assesta attorno al nodo.
Genera, per empatia, un’azione motoria quale ripetizione istintiva del processo creativo, fatto di dilatazioni e compressioni, segni di respiro e pulsioni che evocano lo scorrere della vita: il nodo deforma la materia, la forza per deformare i corpi impiega del tempo, il tempo articola gli spazi e conferisce ritmo all’opera.
Inoltre fa percepire una sensazione di un imminente, ineluttabile e inquietante accadere per effetto dell’oscura energia che la materia annodata cela e a stento sembra contenere: spesso il senso germoglia dalla mancanza, da ciò che non si vede ma di cui avvertiamo la presenza.
Il nodo, poi, contribuisce a strutturare una forma che non nasce dal coordinamento di un insieme di parti distinte e unite armonicamente ma da un’unione in cui ogni singola parte ha perso la sua autonomia, approdando a una coesione molteplice.
Detto ciò è la manipolazione della materia che porta alla tridimensionalità che a sua volta si fa espressione.
Infine, mi permetto di osservare che nell’arte non esiste evoluzione ma semmai una modulazione in altre forme di linguaggi ereditati.
Se ascolti le tue corde più intime, pensi che “il nodo” sia la tua definitiva cifra espressiva o non escludi un’ulteriore cambiamento?
Credo che finché c’è vita nulla debba essere ritenuto definitivo.
Il mio impegno si concentra nella predisposizione di quadri non mimetici con cui istituire una relazione di senso, là dove l’oggettività del visibile non ha natura legiforme.
Intendo stimolare un continuo ri-orientamento del vedere, mediante la presentazione di configurazioni aggettate, di forme dall’impensato o di oggetti ripensati in un altro ordine di realtà. Oggi il nodo mi consente di raggiungere questi obiettivi.
Per completare la risposta e chiarire quello che penso, faccio riferimento alla caratteristica fondamentale del pensiero scientifico: non esiste una teoria migliore di un’altra perché è più vera, ma solo perché spiega meglio di un’altra.
LA FORMA DELL’ANIMA di GUALTIERO REDIVO
Intervista e mostra a cura di Cristina Polenta
per Art Open Space blog & gallery
Chi è Gualtiero Redivo?
Sono nato a Genova nel 1946 e solo dopo qualche anno con la famiglia mi sono trasferito a Roma.
A 17 anni ho iniziato spontaneamente la mia esperienza “artistica”.
Nel 1969 ho partecipato alla prima mostra: una collettiva universitaria al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Ho conseguito la laurea in matematica all’Università degli Studi di Roma "La Sapienza" e ho iniziato subito a lavorare presso un primario Istituto di Credito come informatico e successivamente come analista di automazione e organizzazione.
Nonostante Il lavoro mi abbia impegnato molto ho fatto sempre quadri anche se in modo saltuario e ho seguito con costanza la dinamica del mondo dell’arte.
Nel 1996 ho sentito il bisogno di impegnarmi con maggiore continuità, prendendo parte ad alcuni concorsi, promuovendo le mie opere presso alcune gallerie e ho frequentato alcune accademie allo scopo di confrontarmi con altri artisti. E poi … eccomi qui.
..cosa racconta attraverso le sue opere?
Prima di rispondere alla domanda faccio una breve premessa.
Il valore di un’immagine scaturisce dalla relazione tra l’opera d’arte e l’osservatore che trova in sé, nella sua interiorità, cultura e sistema di attese, il senso di ciò che è a lui davanti, stimolato dagli “artifici” messi in atto dall’artista. Solo al fruitore/destinatario compete la responsabilità interpretativa dell’opera perché la sua esperienza estetica non è né prevedibile, né determinabile completamente da parte dell’artista/artefice. Infatti l’idea che il visibile abbia una dimensione matematica e omogenea, ovvero sia indipendente dal soggetto percettore è stata demolita dalla scoperta delle incongruenze dell’occhio: la visione è un atto irripetibile e colui che osserva “produce” l’immagine che guarda.
Tuttavia, ritengo che accostare alle mie opere non simboliche locuzioni - non impossibili commenti, né sterili titoli - che facciano riferimento a temi specifici e caratteristici del mio “vissuto”, fornisca al fruitore indizi significativi per l’esplorazione di inaspettati percorsi di lettura delle opere stesse.
Per ottimizzare la percezione oriento, quindi, l’immaginazione dell’osservatore a integrare in un’unica esperienza lo stimolo visivo, alimentato dalla struttura, e il processo relazionale contaminato col titolo, caratterizzato dall’avere un forte contenuto etico, sociologico e politico.
In questo modo, rendo coevi l’emozione e la ragione con l’obiettivo di creare valore e far apparire l’artefatto in una nuova prospettiva come il riflesso di un pensiero non gregario, la cui forza evocativa sia in grado di modellare lo statuto dell’oggetto arricchendolo di un quid, non accessorio e ornamentale, e far evaporare quell’incompiutezza che in genere il pubblico riscontra nell’arte contemporanea.

Hai iniziato il tuo percorso artistico con il figurativo, ispirandoti dapprima a Modigliani e poi a Francis Bacon; cosa ti ha spinto a passare ad un linguaggio più concettuale?
La disposizione verso la presentazione della materia, piuttosto che la rappresentazione della realtà, deriva senz’altro dalla mia formazione non accademica. Dopo un primo approccio con gli strumenti di base del fare, ho usato la materia come fonte di tensione e di ordine compositivo.
La scelta, l’accostamento e la manipolazione di materiali eterogenei danno corso a nuova vita e aprono la percezione a nuove possibilità.
Quindi indagare la materia mi ha permesso non di ricercare una bellezza ma di scoprire l’anima del nostro tempo. Un’operazione che ho cercato di svolgere con meticolosità per suggerire senza traumi una forma, per passare dal caos del processo all’idea compositiva e riscoprire il dominio della coscienza.
Un fare quadri che va oltre l'esperienza informale senza rinunciare all'espressività e al dramma, pretendendo di poter sostenere lo sguardo collettivo e creare quindi le condizioni necessarie per dedurre senso dalla esplorazione della fisicità della materia.
Pensi che la scelta dell’uso del nodo, quale emblema della tua attuale poetica, possa essere stata in qualche modo originata dalla tua laurea in matematica?
Non credo.
La scelta dell’uso del nodo risiede nel fatto che esso mutua la complessità della vita contemporanea. Il nodo, infatti, per la sua natura incarna efficacemente il concetto di complessità; caratteristica che gli deriva dall’essere contemporaneamente unità e molteplicità. Infatti il nodo, pur nella sua unicità oggettuale, è elemento che riflette per trasposizione i molteplici significati diversi che il vocabolo nodo assume: trama, complicazione, equivoco, vincolo, costrizione, centralità o essenzialità. Il nodo sta al complesso: la nostra vita è la storia della sfida tra la volontà della ragione a cogliere tutto il reale e la resistenza che questo reale oppone alla ragione.
Il nodo fissa idealmente sulla superficie del supporto il vissuto nell’arco temporale che va dalla nascita alla morte, dall’età di quando ci si sente un re, in grado di conquistare il mondo, a quella della maturità abitata più dalle assenze che dalle presenze e caratterizzata dall’ineludibile consuntivo e dal disincanto. Al contempo fissa idealmente e indissolubilmente l’insieme delle relazioni che intercorrono tra il destino individuale e quello di tutti gli altri.
L’opacità riveniente dalla mescolanza di unicità e molteplicità dà spessore all’opera e il dramma dell’esistere smarrisce il suo carattere individuale per riflettere il dramma di tutta la condizione umana.
E poi il nodo è anche un segno che dà riconoscibilità.
Altro segno distintivo delle tue opere è la tridimensionalità. Un’evoluzione stilistica o una necessità di espressione?
Il nodo configura, attraverso la deformazione della materia, una forma che organizza e interpreta il disordine e dà dimensione allo spazio: euclideo e iperbolico.
Si presenta come un attrattore di un sistema dinamico, infatti l’oscillazione percettiva si assesta attorno al nodo.
Genera, per empatia, un’azione motoria quale ripetizione istintiva del processo creativo, fatto di dilatazioni e compressioni, segni di respiro e pulsioni che evocano lo scorrere della vita: il nodo deforma la materia, la forza per deformare i corpi impiega del tempo, il tempo articola gli spazi e conferisce ritmo all’opera.

Il nodo, poi, contribuisce a strutturare una forma che non nasce dal coordinamento di un insieme di parti distinte e unite armonicamente ma da un’unione in cui ogni singola parte ha perso la sua autonomia, approdando a una coesione molteplice.
Detto ciò è la manipolazione della materia che porta alla tridimensionalità che a sua volta si fa espressione.
Infine, mi permetto di osservare che nell’arte non esiste evoluzione ma semmai una modulazione in altre forme di linguaggi ereditati.
Se ascolti le tue corde più intime, pensi che “il nodo” sia la tua definitiva cifra espressiva o non escludi un’ulteriore cambiamento?
Credo che finché c’è vita nulla debba essere ritenuto definitivo.
Il mio impegno si concentra nella predisposizione di quadri non mimetici con cui istituire una relazione di senso, là dove l’oggettività del visibile non ha natura legiforme.
Intendo stimolare un continuo ri-orientamento del vedere, mediante la presentazione di configurazioni aggettate, di forme dall’impensato o di oggetti ripensati in un altro ordine di realtà. Oggi il nodo mi consente di raggiungere questi obiettivi.
Per completare la risposta e chiarire quello che penso, faccio riferimento alla caratteristica fondamentale del pensiero scientifico: non esiste una teoria migliore di un’altra perché è più vera, ma solo perché spiega meglio di un’altra.
LA FORMA DELL’ANIMA di GUALTIERO REDIVO
Intervista e mostra a cura di Cristina Polenta
per Art Open Space blog & gallery