L'artista si racconta: CETTI TUMMINIA

Cetti Tumminia ha scelto l'arte come mezzo per guardarsi dentro e far emergere la sua sfera più profonda, più intima, è il suo modo per accogliere e perdonare se stessa, un modo per trovare la pace ed avere speranza. Figlia d'arte, padre fotografo e mamma pittrice, nelle sue opere è evidente il profondo legame con i suoi genitori, l'imprinting lasciato da queste due figure importanti che l'hanno cresciuta infondendole il piacere e la bellezza di vivere a stretto contatto con tutto ciò che è espressione artistica. Le sue produzioni sono dominate dal nero, che definisce il colore del silenzio e dell'intimo rifugio, sono di forte impatto, belle da togliere il fiato, magnetiche, perfetti equilibri tra luci ed ombre.

Essere artista per me è fisiologico, non si tratta di una scelta. L’arte mi spoglia della corazza di cui mi vesto per affrontare il quotidiano, per contrastare ciò che non accetto e che non mi appartiene. E’ un mezzo alto ed insieme profondo, necessario, per comunicare con me stessa e con gli altri: mi aiuta a mettere in luce caratteristiche umane positive, a bilanciare quello che è il mondo visibile che quotidianamente logora la parte migliore di noi. E’ un modo per combattere silenziosamente, un modo per scavarmi dentro e portarmi fuori, un modo per urlare, un modo per accogliere e perdonare me stessa, un modo per trovare la pace ed avere speranza.
“Non so se sono artista quando fin sullo scalino di casa mi sento di essere bianca, più bianca, e poi nera, più nera, e in quel frastuono di chiaroscuri mi consento i giusti silenzi addosso. Ecco, mi sento:  la pace del fare mi prende le dita, mi scavo e scelgo dal cuore le bozze più inclini alla speranza, mi nomino viva per essere viva e scrivo nell’agenda di un giorno qualsiasi un tot di profondo, utilissimo a non sprofondare.
E’ questo, forse, l’equilibrio e il disequilibrio del mio essere donna e artista?”


Nelle mie produzioni riconosco quel legame profondo con ciò che ho vissuto e amato: le foto in bianco e nero di mio padre, le decorazioni floreali di mia madre, i neri profondi e i forti contrasti delle luci teatrali,  i luoghi inconsci nei quali spesso mi smarrivo. Amo rappresentare figure femminili perché la donna è un essere fortemente bivalente, delicata e potente. La sua potenza ha la capacità di restare intima, in questo modo la comunicazione può svilupparsi in maniera empatica. L’inserimento di elementi naturali poi, oltre ad una valenza puramente decorativa, mi consente di sottolineare l’unione tra uomo e natura. L’elemento naturale diviene simbolo dell’universo in cui viviamo (visibile e invisibile) ed insieme metafora della natura umana. La natura emerge o si fonde con l’elemento umano facendo riaffiorare emozioni inconsce, sottolineando caratteristiche proprie del nostro essere, aprendoci nel contempo all’introspezione.
Rifuggo le rughe, i pori della pelle, i giochi d’acqua, i volti lentigginosi, le folte barbe, non sono dettagli per me significativi sui quali soffermarmi, anche se apprezzo sinceramente molte delle opere iperrealiste che alcuni artisti contemporanei straordinari realizzano, di fronte ai quali mi stupisco, non mi capacito. Ma osservando queste opere straordinarie realizzo la mia naturale lontananza da esse: non mi sento affatto iperrealista. 
Uso luci ed ombre vere ma da loro mi aspetto che, nell’oltre dell’esistenza umana, siano mezzo di conduzione dal profondo alla superficie. E quest’ultima, nel cui volto umano trova spesso sede necessaria, deve vivere imperfetta come approssimazione alla fragilità perfetta.
Amo il nero: il colore del silenzio, il colore dell’intimo rifugio, il colore del luogo infinito e senza tempo… Nelle cavità più intime del nero i più antichi dolori del rifiuto e le carezze del dubbio, la fabbrica di altri sogni. Do seguito a mondi interiori, inconscio e conscio si fondono, l’idea si scompone e ricompone, rivoluzionando i ritmi concettuali, ora mi rende inquieta, ora mite e amabile.  Ho spesso la sensazione di non essere io a guidare questo divenire, ma l’armonia che diviene mi sveglia l’esistenza. 
Ci vorrebbe un trattato di semplicità per spiegare che le mie opere non sono una meccanica stesura di colori, si tratta di un’arte che implica un’attività emozionale complessa. L’armonia del mondo in un disegno a matita, le variazioni di tono, lo studio dei chiaroscuri per separare luci e ombre e farne una sola luminosità. L’opera cresce a spazi che convergono e ne assumono gli umori umani. Il tempo per definirla diventa fastidioso ingombro e quando penso di doverla liberare compaiono le fiere debolezze e il bello abolisce ogni merito. Ma il tempo, ancora, la fa nuovamente diventare altro, lei si innalza e si racconta, anche a me che l’ho vista nascere.

Penso che il mio percorso artistico nasca dalla mia stessa nascita: sono figlia d’arte. Oltre ai ricordi di bambina, la componente genetica nutre naturalmente la mia sfera creativa. Mio padre è un fotografo capace ed appassionato mentre mia madre per la maggior parte della sua carriera lavorativa è stata disegnatrice, decoratrice e pittrice. Da che ho memoria è sempre stato evidente che il mio lato artistico fosse prevalente: ho sempre dedicato la maggior parte del mio tempo al disegno, alla colorazione, al canto ed al teatro, luogo magico e misterioso al quale fui introdotta sin da bambina da mio padre che per moltissimi anni ha lavorato anche come fotografo di scena per il teatro ed il balletto.
Nel 1998 mi diplomo all’Istituto d’Arte, sezione Grafica Pubblicitaria e Fotografia, da questo momento al trascorrere di 15 anni pensando a tutt’altro a volte non credo nemmeno io, eppure è stato così. Dopo il diploma è stato un susseguirsi di scelte legate alla stabilità economica e al compimento di una famiglia credendo nel contempo che il sogno da realizzare fosse quello di fare l’attrice. 
Ho studiato recitazione per 15 anni, poi nel Dicembre 2013, durante l’avvio di un progetto teatrale per me davvero importante, vengo folgorata mentre realizzo il ritratto dei miei due figli. Da quel momento non penso ad altro: riprendo a dipingere in maniera costante, nonostante i bambini piccoli (il più piccolo aveva solo 9 mesi), nonostante il lavoro diurno a tempo pieno, dipingo la sera, la notte, riducendo consistentemente le ore di sonno. Lascio il teatro, lascio tutti gli impegni che potrebbero distogliermi da quello che diventa il mio unico bisogno. Oggi, dopo quasi 5 anni da quel momento, sono ancora assolutamente convinta che questa sia la mia vocazione: riconosco in me, finalmente, capacità che neppure la mia forte criticità possono mettere in discussione e comunque, anche se volessi, sarebbe impossibile tornare indietro.

Bei ricordi del mio percorso artistico ce ne sono diversi e corrispondono ai momenti in cui ho scorto l’incanto negli occhi altrui di fronte ad una mia opera per la prima volta. Qualcuno mi ha persino confessato di essersi commosso… per me non ci può essere esperienza più gratificante che assistere e percepire concretamente l’empatia tra lo spettatore e l’opera. Quando questo avviene ho la conferma di aver lavorato bene.

Penso che c’è una vita ed il suo desiderio di essere felice e di vivere il “bello e buono” di ogni momento. L’atto artistico è il non perdersi in sé, è il movimento che ci pone davanti all’avvenimento con occhi sgranati e che ci fa riconoscere la promessa di felicità e del buono per noi, nel nostro cammino verso la realizzazione di ciò.

Sono una persona semplice e molto tenace: sogno di vivere senza rinunciare ad essere me stessa.
Ne ho uno anche da realizzare: attualmente sono nel pieno di un periodo transitorio tra un impiego ventennale da dipendente e un percorso da libero professionista. Le idee da attuare sono diverse, i prossimi mesi saranno dedicati alla progettazione sia dei percorsi che delle opere per poi proseguire con un periodo intenso di produzioni. 


Intervista esclusiva di ART OPEN SPACE, pubblicata a maggio 2018 sul blog e nel catalogo in occasione della mostra personale di Cetti Tumminia - Rassegna d'Arte 2018 di ART OPEN SPACE.